52. Esposizione
Internazionale d’Arte di Venezia.
La morte è in scena.
Liquidata
da più parti per scarsa incisività e valore artistico,
questa 52. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia
curata dello statunitense Robert Storr, offre in
realtà uno spaccato del nostro presente assolvendo al compito,
unico nel suo genere, di mostrare l'arte della contemporaneità,
le tendenze, le scuole, i movimenti, gli artisti, attraverso le
partecipazioni nazionali.
La sorprendente e singolare caratteristica di questa Biennale è
di essere nell’insieme tematicamente affine. Il titolo “Sentire
con la mente - pensare con i sensi. L’arte al presente”
voluto da Robert Storr, pur riecheggiando nella prima parte reminescenze
Kantiane, nella seconda, con tutte le sue contraddizioni e complessità
connesse, suggerisce un distinto percorso. Gli artisti delle nazioni
partecipanti (tra l’altro quest’anno quasi raddoppiate)
e dei numerosi eventi collaterali, si sono trovati incredibilmente
concordi intorno a un solo tema, conseguentemente oltre che per
la riflessione sul titolo della mostra, per la sensibile appartenenza
di questi al mondo che viviamo.
Parafilia necrofila tra rappresentazione e feticismo, potrebbe sembrare
il denominatore comune di questa 52. Esposizione Internazionale
d’Arte di Venezia. In realtà la mostra, finalmente
priva di stramberie bizzarre da luna park, è caratterizzata
da un forte impegno morale degli artisti contro la follia bellica
e da una profonda riflessione sulla morte anche contro la ricorrente
presenza di questa nei media e in tutti i mezzi d’informazione
che la offende e snatura.
La morte come violenza, la morte come privazione che poi,
nel mondo attuale, costruito sul possesso come valore unico e assoluto,
è la stessa cosa. La morte che diventa prevaricazione,
idea fissa, ossessione e denuncia. Proprio quest’ultimo è
l’aspetto che viene maggiormente messo in rilievo dagli artisti.
La morte filtrata da riflessioni tra filosofia ed impegno sociale,
tra tormento e ironia come nel caso di Angelo Filomeno
e delle sue macabre e barocche tele di scheletri tragicamente grotteschi,
preziosamente ricamate con seta e paillette. Oppure nell’intenso
ed emozionante video di Bill Viola dal tema a lui
caro della sospensione tra la vita e la morte, che mostra il simbolico
attraversamento di un muro d’acqua intrapresa dai morti in
un cammino inverso per ritornare nel mondo dei vivi ma che, infine,
delusi del loro nuovo stato, rifaranno il percorso a ritroso.
L’elenco delle opere e delle performance sarebbe molto lungo
e piuttosto che deridere la qualità artistica di queste,
come da alcune parti è avvenuto, bisognerebbe innanzitutto
domandarsi il perché di una tale concordanza e comunione
di intenti, cercando di cogliere il significato di questa singolarità
impossibile da ignorare, sia per la sintonia tematica, sia per la
forza evocativa in cui etica ed estetica coincidono. Questo al contrario
di certa critica un po’ saccente e arrogante che non ha saputo
o voluto cogliere, nonostante ostenti di sé grande deontologia
professionale.
Come è possibile restare impassibili di fronte alla video
installazione di Yang Zhenzhong dove contemporaneamente
su dei maxi schermi, anonimi individui da tutto il mondo, esprimono
nella loro lingua l’improvvisa irruzione in un’esistenza
non decifrabile, l’imprescindibile verità della frase:
“Io morirò”. O con l’opera di Muñoz
Óscar che presenta proiezioni video su diversi schermi
allineati dove una mano disegna i volti di persone scomparse nel
vano tentativo di tenerne in vita la memoria, ma che, una volta
delineati i tratti essenziali, già iniziano a dissolversi
finché non scompaiono nuovamente nel nulla.
Impossibile non menzionare la performance di Vanessa Beecroft
con una trentina di donne sudanesi riverse nel sangue a denuncia
del genocidio eseguito dal governo filo-arabo sudanese ai danni
delle popolazioni africane che abitano il Darfur (i Fur, Massalit,
Zaghawa e altre minoranze), o lo spettrale video che si commenta
da sé, di Paolo Canevari dove un bambino
gioca da solo con un teschio per palla, tra le sinistre macerie
dell’ex quartier generale dell’esercito serbo a Belgrado
bombardato dalla Nato nel 1995.
Lo scomparso Felix Gonzalez-Torres è presente
con le sue opere nel Padiglione americano e invita il pubblico a
consumare le caramelle nere di liquirizia disposte come un tappeto
sul pavimento e il cui peso complessivo corrisponde a quello dell’artista
e del suo compagno morto di AIDS come lui e prima di lui. Facendo
così, metaforicamente dono di sé, invita a riflettere
sulla transitorietà dell’esistenza umana.
Forse potrebbe apparire discutibile, ma comunque particolarmente
toccante è l’invito che ci fa Sophie Calle
di partecipazione alla morte della madre di cui documenta le ultime
ore di vita, ponendoci degli interrogativi sulla contiguità
tra la vita e la morte anche attraverso la fatale coincidenza per
cui lo stesso giorno dell’invito a partecipare alla Biennale,
ha appreso la notizia della malattia terminale della madre.
Su un altro tenore l’opera di Jan Christiaan Braun
che documenta la consuetudine newyorkese di decorare le tombe dei
propri cari in occasione delle varie feste dell’anno per continuare
a festeggiare insieme ogni ricorrenza.
Denuncia per la manomissione della verità da parte del suo
paese nell’opera di Emily Prince, la statunitense
che ha realizzato i ritratti di 3800 vittime americane morte in
Iraq ed Afghanistan. L’opera forma la carta geografica degli
USA e i disegni sono disposti in modo da occupare il luogo corrispondente
alla città di nascita di ciascuna vittima.
Feticismo, ma anche monito contro l’autodistruzione del genere
umano nei quattromila frottage che Masao Okabe
ha realizzato con le pietre del marciapiede della stazione portuale
di Hiroshima nel tentativo di conservare l’impronta di qualcosa
che non c’è più. Così come per lo scenario
delle fotografie di Beirut realizzate da Gabriele Basilico
da cui è scomparsa ogni presenza umana.
Altre opere, sempre molto attinenti al tema, sono le angoscianti
fotografie di Tomer Ganihar, gli stringati elenchi
e ritagli di giornale dei «muertos», «desaparecidos»
e «cadáveres» di Ignasi Aballí;
e la denuncia di Jenny Holzer della morte in una
cella americana di un detenuto mediorientale.
Ma altre riflessioni sulla morte o come diceva Roland Barthes, sul
Tempo che porta a riflettere sulla Morte, appare anche nelle opere
di Jan Fabre a Palazzo Fortuny o nelle nuove Vanitas come l’enorme
teschio composto con tante lucidissime stoviglie da Subodh
Gupta, all’ingresso di Palazzo Grassi sul Canal Grande.
Altri teschi nei cupi universi di Damien Hirst a
cui si contrappongono quelli di Cucchi e i teschi
beffardi di Bertozzi & Casoni dal lungo naso
di Pinocchio.
Da questa concordanza emerge con chiarezza che non può certo
trattarsi di sola coincidenza. James Hillman direbbe che si tratta
dell’anima del mondo. Ma il senso di caducità e di
finitudine che ci pervade a Venezia, insieme alla consapevolezza
di come il divenire accompagni le nostre esistenze tra le apparenze
della società contemporanea, non può occultarci l’ovvia
considerazione che non ci sarebbe vita senza la morte e che per
una vita che finisce, altre ne iniziano ed è pertanto proprio
nel divenire che risiede la perennità del tutto.
Ignazio Fresu
www.ignaziofresu.it
Per una visita virtuale della 52. Esposizione Internazionale
d’Arte di Venezia
www.treccanilab.com/biennale_di_venezia/
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