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Pubblicato
aprile 2007 |
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*spaziosonoro*
LE
SONORITA’
DI BASQUIAT
di Giovanni Ciucci
L’enfant
prodige-terrible, trituratore dell’iconografia occidentale,
gatto randagio in avanscoperta tra le immondizie della NYC
degli anni Ottanta, Jean-Michel Basquiat è stato anche
enormemente infatuato dalla musica e musicista a pieno titolo. |
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NYC
- GRAFFITI |
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Per
attraversare la sua dimensione musicale, dobbiamo innanzitutto
entrare nel suo scenario abituale, ovvero la Downtown Manhattan
di fine anni Settanta.
Stiamo parlando di uno spazio metropolitano pericoloso, perché
area depressa con scarsa opportunità lavorativa, quindi
facile al dilagare della criminalità, droga e violenza,
ma anche luogo dove gli affitti sono bassi e, quindi, in grado
facilitare lo svilupparsi di una comunità di musicisti
, pittori e creativi tra i più disparati (disperati?).
Riunire queste componenti non può che innescare un
ribollire di molteplici attività culturali e sfociare
in una scena che immancabilmente fa parlare di sé,
portando poi molti dei protagonisti alla notorietà.
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QUARTIERE |
La
vita notturna, decisamente vitale, si muove tra clubs e parties,
finendo col rivestire il ruolo di momento ideale per uno scambio
culturale tra i portavoce di questo complesso, quanto fertile,
humus dell’underground newyorchese.
Appunto durante il party tenutosi al “The Canal Zone”
il 29 aprile 1979, J-M incontra per la prima volta Michael
Holman e sul momento decidono di formare una band insieme,
quella che lo stesso Basquiat chiamerà Gray, citando,
probabilmente, il titolo del manuale di anatomia illustrato
‘Gray’s Anatomy’, scritto da Henry Gray.
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GRAFFITI |
Non
possiamo qui tralasciare ‘il luogo’ dove Basquiat
vive le sue molte notti insaziabili, ovvero il Mudd Club,
al 77 di White Street, sorta di pentola a pressione di quelle
che sono le forze propulsive artistiche in quei frenetici
giorni.
All’interno di questo capannone ristrutturato a night
club di second’ordine, che rappresenta per l’epoca
la risposta abrasiva al patinato Studio 54, si aggira l’ombra
di J-M mentre suonano bands epocali di matrice new-wave come
i Blondie, Lydia Lunch, i B-52’s, o i Talking Heads,
che addirittura citano in ‘Life During Wartime’:
"This ain't no party, this ain't no disco, this ain't
no foolin' around... This ain't the Mudd Club or CBGB's, I
ain't got time for that now..." .
Brian Eno oltre a progettare per il locale l’impianto
sonoro, produce nel 1978 un manifesto discografico, quale
testimonianza dei fermenti musicali della New York stilisticamente
più estrema e coraggiosa. Parliamo del celeberrimo
vinile “No New York”, che ci rimanda alle imprese
di bands seminali quali The Contortions, Teenage Jesus and
The Jerks, Mars e DNA, al quale manifesto risponderà
l’altrettanto profetica compilation “Yes L.A.”.
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MUSIC |
Dal
primo nucleo originario dei Gray
vanno ad aggiungersi inizialmente Shannon Dawson, Wayne Richard
Clifford, quindi Nick Marion Taylor, poi l’attore, musicista
e regista Vincent Gallo e saltuariamente Felice Rossen.
J-M suona vibrafono, clarinetto, sintetizzatore, chitarra,
oppure legge poemi durante gli shows, e proprio riguardo le
sue esibizioni lui stesso dichiara: ”All’epoca
mi ispiravo a John Cage. Facevo musica che non era veramente
musica. Cercavamo di essere incompiuti, abrasivi, singolarmente
belli” [1].
Alcuni
titoli del repertorio sono:
Drum Mode, La Dopa, Industrial Mind, Pop-eye, Braille Teeth,
Six Months, The Rent, Origin of Cotton, Mona Lisa.
Musicalmente la band si muove nel territorio del ‘noise’,
attraverso un suono sperimentale e dilatato, dove gioca
un ruolo determinante l’improvvisazione, come ricorda
Eszter Balint, J-M “se ne stava sdraiato sul palco
suonando qualunque cosa avesse sotto mano, mentre gli altri
Gray gli facevano un beat di sottofondo. Era molto sperimentale”
[2].
La
band suona principalmente nei locali di New York, fino al
3 agosto 1980,
data dell’abbandono di J-M del gruppo, che inevitabilmente
si scioglie in mancanza del leader, ormai deciso a dedicarsi
principalmente alla pittura, costruendosi vorticosamente
nel volgere di pochi mesi una fama internazionale.
Va
detto, comunque, che la musica rimane sempre parte del suo
essere pittore e artista,
infatti troviamo disseminati nella sua produzione pittorica
richiami allo zydeco (musica afro-louisianiana), al jazz,
al be bop, al rap, ecc.., per non parlare delle ‘Discography
one’ e ‘two’, due opere che consistono
in scritte bianche su fondo nero, che creano un effetto
da ‘lavagna scolastica’; lavori questi dedicati
ai musicisti jazz preferiti e alle rispettive uscite discografiche.
Si può definire il suo approccio ad affrontare la
tela, e di accostarsi alle diverse tecniche pittoriche,
come quello di un campionatore umano, che raccoglie frammenti
formali e musicali per strutturali in un codice aspramente
nuovo e personale, in qualche modo imprevisto e spiazzante,
prima ancora che la tecnica del campionamento musicale invadesse
la produzione musicale mondiale col decennio successivo.
Una metodologia questa che
lo avvicina al free jazz, dove vengono riprese
frasi del repertorio di altri musicisti, ma allo stesso
tempo inserite anche improvvisazioni formali ispirate dal
fluire dell’esecuzione.
Che la musica sia fonte costante di ispirazione è
dimostrato dal fatto che è interessato alle novità
discografiche, quanto al recupero di incisioni del passato,
che fungono da colonna sonora del suo quotidiano, sia artistico
che umano.
L’enfant
gate, inoltre, produce nel 1983 un disco hip-hop dal titolo
‘Beat Bop’
di Rammellzee e K-Rob su Tartown Record, per il quale disegna
la stupenda copertina in bianco e nero, dove campeggia l’ormai
tipica corona a tre punte. Sebbene il titolo richiami sonorità
jazz tanto care a J-M, le reali influenze sono tipicamente
Ottanta. La frizzante base consiste in un giro funky di
basso e chitarra, accompagnato da un’essenziale loop
digitale di drum-machine, tipico del primo hip-hop, ma formula
a tuttoggi ancora in voga.
Nell’intervista rilasciata nello stesso anno a Lisa
Licita Ponti dice che ora sta ‘lavorando a un disco
di tamburi africani’[3],
il quale purtroppo non ci è pervenuto,
in quanto probabilmente non portato a termine.
Ne consegue che la necessità costante di musica nel
quotidiano di Basquiat, porta anche ad uno
slittamento formale delle scelte pittoriche, infatti, come
scrive Luca Marenzi, ‘così come per altre nuove
forme artistiche degli anni Ottanta, quali il rap, l’hip-hop,
l’electric boogie, i graffiti e la break-dance, occorre
raggiungere prima una soglia d’alienazione, sicché
per poter apprezzare pienamente i dipinti di Basquiat l’osservatore
deve accettare un “rap degli occhi”[4].
Fino agli ultimi giorni di vita continua a comporre musica
che fa ascoltare agli amici di vecchia data, come Arto Lindsay,
ma ha anche intenzione di comprarsi un clarinetto per tornare
a suonare musica con Vincent Gallo.
Purtroppo quest’ultimo rimane un progetto irrealizzato
e lentamente J-M si isola per rannicchiarsi all’interno
del guscio del suo uovo artificiale, in attesa che si inneschi
l’inesorabile, quanto mediaticamente predetta implosione
finale.
Bibliografia
(alcune citazioni)
[1] C. McGuigan, ‘New Art, New Money.
The Marketing of an American Artist’, in “The
New York Times Magazines”, 10 febbraio 1985.
[2] Phoebe Hoban, ‘Basquiat’,
Alberto Calstelvecchi Editore Srl, aprile 2006, p. 81.
[3]
Lisa Licita Ponti, Editoriale Domus SpA, Milano, in Domus,
Milano, gennaio 1984.
[4] Luca Marenzi. ‘Pay for soup /
Build a fort / Set that on fire’, ‘Basquiat’,
Edizioni Charta, Milano, 1999, p. XXII.
Immagini: archivio
Photographer Suada
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Ciucci - Pubblicato aprile 2007
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