Quella
orchestrata da Daniel
Birnbaum è
una Biennale piuttosto interessante,
condizionata non poco dalla
formazione filosofica del suo
curatore. Ways of Worldmaking,
il titolo dell’opera di
Nelson Goodman
alla quale la Biennale 2009
deve il suo tema, offre uno
spunto interessante per provare
ad inquadrare questa Esposizione.
Tralasciando il titolo heideggeriano
dell’opera di Goodman,
Fare
Mondi è
un tema che da subito è
apparso estremamente rischioso.
Un contenitore di idee fin troppo
vasto dove pareva esserci posto
per ogni forma, dove quel sostantivo
Mondi al plurale lasciava intendere
una libertà creativa
ed espositiva che facilmente
poteva trasformarsi in una rassegna
disordinata di artisti di diversa
provenienza, formazione, età.
Parlando soprattutto della parte
allestita al Palazzo
delle Esposizioni e
tenendo anche conto delle difficoltà
allestitive che presentano gli
spazi labirintici dell’edificio,
il lavoro di Birnbaum è
apparso, nella sua dispersività,
ordinato da linee guida da lui
stesso spiegate.
Un mondo – dice il curatore
- tende a essere abitato da
più di un individuo,
quindi in questo caso “fare”
ruota intorno al costruire qualcosa
di comune, che può essere
condiviso. Forse i nuovi mondi
emergono dove i mondi esistenti
s’incontrano, ed è
per questo che sono interessato
alle innumerevoli traduzioni
del titolo.
A chi lo accusa di aver allestito
una Biennale avulsa dal contesto
globale, perbenista e “borghese”,
Birnbaum risponde, con approccio
certo un po’ romantico
ma senza alcun dubbio atipico,
concentrandosi soprattutto sull’artista
e sull’ incontro di forme
diverse: accostare diverse realizzazioni
di uno stesso tema proprio come
si accostano le innumerevoli
traduzioni del titolo, quindi
costruire “mondi”.
La creatività estetica
come primo materiale costruttivo.
Noi costruiamo
i nostri mondi costruendoli,
scrive Goodman.
Edificazioni fuori dagli schemi
e rielaborazioni architettoniche
per lo più grandiose
dello spazio sono oggetto delle
opere di un gruppo di artisti
che ha per nume tutelare Yona
Friedman, architetto,
designer e teorico dell’architettura
leggera e dell’urbanistica
visionaria. Questi artisti sono
rappresentati alla Biennale
dal tedesco Tobias Rehberger,
dal nostro Massimo Bartolini
o dal giovane Tobias
Saraceno con la sua
sensazionale ragnatela di galassie.
Da questi artisti non dobbiamo
aspettarci architetture nel
senso classico del termine ma
strutture geometriche antimonumentali
e ambienti sorprendenti dove
anche l’uso di materiali
leggeri concorre ad un effetto
finale di leggerezza. Si segnala
per affinità con Friedman
anche l’opera di Wentworth
che sfida la gravità
con un’istallazione di
cavi e libri sospesi.
Tomas
Saraceno, Galaxis Forming along
Filaments,
like Droplets along the Strands
of a Spider's web
Un
altro filone attraversa l’esposizione:
si tratta di costruzioni arazionali,
spesso lavori a parete ordinati,
dalle dimensioni più
contenute per favorire la concentrazione
dell’osservatore. Un caso
è quello della sala di
Gutai, dalle
opere praticabili alle lampadine
insabbiate di Michio
Yoshihama, oppure dell’opera
di Georges Adeagbo,
artista del Benin che si dedica
ad istallazioni a parete dagli
evidenti risvolti sociali.
Molto divertenti le opere di
Andrè Cadere:
bastoncini colorati appoggiati
agli angoli per tutte le sale
dell’Esposizione. Un’infiltazione
dell’arte nella stessa
arte.
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Fiabesche
invece le atmosfere evocate
dalle ombre giocattolo di Hans
Peter Feldmann (Shattenspiel),
la cui opera si accompagna a
riflessioni sulla riproducibilità
dell’opera d’arte
e sulla manipolazione dell’oggetto
ordinario. Le performance istallative
dell’indiano Nikhil
Chopra, le visioni
psych della russa Anna
Parkina e le complesse
animazioni dell’americano
arrivato da Hong Kong, Paul
Chan presentano una
visione del mondo giovane (
tutti e tre gli artisti sono
nati negli anni ’70) e
proiettata verso un futuro digitale
e psichedelico. Giovane e talentuosa
anche la svedese Nathalie Djurberg,
la cui opera è carica
di un fascino a metà
tra la fiaba e l’orrore.
Ad amplificare l’atmosfera
onirica dei video, che hanno
come protagonisti pupazzi di
plastilina colorata che si muovono
in stop motion, ci pensano le
sculture installate tra i differenti
monitor: fiori giganteschi e
arbusti dai colori violenti
e acidi che creano uno scenario
da incubo. Per lei alla Biennale,
menzione speciale della giuria.
Nettamente diversa è
la situazione del Padiglione
Italia. Le perplessità
sull’allestimento sono
molte, soprattutto quando una
collocazione errata penalizza
l’opera. È il caso
della sculture di Aron
Demetz, in cui la figura
umana appare angosciante e sinistra,
quasi in decomposizione: posizionate
svantaggiosamente all’ingresso,
nella penombra, non hanno goduto
dell’attenzione che meritavano.
Al contrario si segnala la scelta
di valorizzare strutture imponenti
come quella di Silvio
Wolf che investe e
illumina di un’ aura mistica
la lunga parete incastonata
da una miriade d’inquietanti,
piccole sculture in ceramica
a opera di Bertozzi
& Casoni.
Pochissimi
i richiami al Futurismo promessi
dai curatori nell’anno
del centenario: fatta eccezione
di FuturBolle
di Davide Nido,
non sono presenti altre citazioni.
La situazione migliora di molto
con l’allestimento fotografico
di Costa e
Basilè
che conquistano lo spazio circostante
nell’alternarsi di fotografie
di diversi formati, quasi in
competizione fra loro. Parecchi
consensi ha ottenuto l’opera
del duo Masbedo,
Schegge d’incanto in fondo
al dubbio, un dittico nel quale
un impianto tecnologico e cinematografico
di altissimo livello sorregge
una composizione narrativa di
grande pathos.
Tra
gli altri Padiglioni si segnalano
il Padiglione
dell’America Latina
con i copertoni di bicicletta
aggrovigliati di Dario
Escobar e quello cileno
per le installazioni
di luci e specchi di Iván
Navarro. Elegantissimo,
ma già visto, il padiglione
di Danimarca
e paesi nordici:
una casa arredata all’ultimo
grido e fuori una piscina in
cui galleggia un morto, sul
fondo si intravedono alcuni
oggetti personali del defunto
(un pacchetto di sigarette e
un orologio di lusso). A qualche
metro di distanza, nel Padiglione
russo, Andrei Molodkin espone
un’installazione messa
in moto da un liquido rosso,
sangue pronto a irrorare la
carcassa della Nike di Samotracia.
Anche nel Padiglione degli Stati
Uniti Bruce Nauman
non stupisce.
Sembra quindi facile inquadrare
questa Biennale 2009 in una
tendenza generale che privilegia
l’individualità
dell’artista, in una dimensione
onirica, sospesa, di contro
ad uno spirito polemico e un
po’ pulp, che non pare
convincere più tanto.
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Aurora
Tamigio - Testo e servizio fotografico
Luglio 2009
Esposizione
internazionale d’Arte Venezia
2009
Fare Mondi
dal 7 giugno al 22 novembre 2009
Giardini della biennale, Arsenale
Orario: 10.00-18.00
Giardini chiuso il lunedì
(escluso lunedì 8 giugno
e lunedì 16 novembre 2009)
Arsenale chiuso il martedì
(escluso martedì 9 giugno
e martedì 17 novembre 2009)
>per
info sugli eventi collaterali
http://www.labiennale.org |